Quando Gandino sconfisse Auschwitz

Sessantatré ebrei salvati dalla gente del paese. Il caso della famiglia di Bortolo e Battistina OngaroSei gandinesi «Giusti fra le Nazioni». La lettera di Marina Löwi: ci ha dato rifugio gente eroica

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26/01/2005
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Un ritratto di Bortolo e Battistina Ongaro che per due anni ospitarono nella loro casa una mamma ebrea con i due figlioletti.
Il comunicato ufficiale del direttore della deputazione per i «Giusti» dello Stato di Israele, Mordecai Paldiel, in cui si annuncia il conferimento del riconoscimento a Bortolo e Battistina Ongaro
Due immagini: nella prima Giovanni Ongaro, figlio di Bortolo e Battistina, con la moglie Maria. Più a destra Sighi Löwi, il bambino salvato, oggi settantenne, con Giovanni Ongaro. Infine Marina Löwi, sorella di Sighi.
Marina Löwi ha scritto ai gandinesi una lunga e commossa lettera di ringraziamento per l’aiuto donato a lei e alle altre famiglie perseguitate

Tutto il paese sapeva, ma qui a Gandino non venne catturato nessun ebreo. Eppure ne avevamo tanti, nascosti. Più di 60. A casa dei miei genitori avevamo una mamma con i due figli, il maschio aveva 10 anni, proprio come me».
Giovanni Ongaro ricorda gli anni della guerra, gli anni in cui la sua famiglia di colpo aumentò da cinque a otto componenti. Oggi Giovanni Ongaro ha 72 anni, ma i rapporti con quei due ragazzi che ora abitano negli Stati Uniti sono ancora stretti. E nelle scorse settimane è arrivata a Gandino un’importante notizia: lo Stato di Israele ha conferito a sei concittadini scomparsi la più alta onorificenza, il titolo di «Giusto fra le nazioni». Quanti ebrei salvò il paese di Gandino nei terribili giorni del dominio nazifascista? Si parla di 63 persone, 63 creature umane che vennero sottratte al delirio dei campi dove passeggiava l’orrore, da Auschwitz a Mauthausen, a Birkenau.
Fra i gandinesi che rischiarono la vita per salvare gli ebrei ci furono Bortolo e Battistina Ongaro, che nella loro casa accolsero per più di due anni una madre ebrea con i due figli. A Bortolo e Battistina Ongaro lo Stato di Israele ha conferito il titolo di «Giusti fra le Nazioni», il massimo riconoscimento che gli ebrei assegnano a coloro che si sono opposti all’Olocausto. E infatti la motivazione recita semplicemente: «Per l’aiuto reso a persone ebree durante il periodo dell’Olocausto mettendo a rischio la propria vita». Ma il massimo onore andrà anche alla memoria degli altri benefattori: Vincenzo Rudelli (già sindaco di Gandino), Giovanni Servalli, Francesco Lorenzo e Maria Chiara Carnazzi Nodari. Bortolo e Battistina erano nati all’inizio del Novecento; oggi non ci sono più, sono rimasti i figli Giovanni e Margherita. Margherita ha ottant’anni, abita a Leffe. Giovanni, in paese conosciuto come «Bepi Oca», come suo padre, suo nonno e suo bisnonno, vive ancora a Gandino, in via Cesare Battisti. Oggi ha 72 anni, all’epoca dei fatti era un ragazzino.
Racconta nel soggiorno della sua casa in questa fredda e limpida mattina di gennaio: «È cominciato tutto verso la fine di settembre del 1943. Mio padre era andato a nocciole su in Valle Piana, il colle che poi va verso la Malga Lunga, opposto al Formico. Allora si era poveri e tutto era buono. Stava tornando a casa quando ha incontrato delle persone che salivano con i muli, andavano al Monte Palandone. Mio padre vide che erano stranieri e probabilmente già sapeva che si trattava di ebrei. Vede, in paese si sapeva che c’erano ebrei nascosti, che qualcuno li aiutava. C’era la signora Lina Rudelli con il padre Vincenzo che ha aiutato tanta gente, ebrei, partigiani, dissidenti. Ma poi con il passare dei mesi, lungo il 1944, un po’ tutto il paese sapeva degli ebrei nascosti. Ma nessuno ha mai parlato. Nessun ebreo nascosto a Gandino è mai stato scoperto».
Giovanni Ongaro è sposato, ha due figli. Per una vita è stato dirigente all’Enel. Il papà, Bortolo, lavorava per l’azienda elettrica Crespi, la mamma pure lavorava al Lanificio Testa. Erano gli anni in cui le coperte di Gandino erano ancora diffuse sui mercati nazionali e non solo. Continua Giovanni Ongaro: «In casa eravamo tre figli, io ero il più giovane, poi c’erano la Margherita e la Maria che purtroppo è morta a 27 anni, di tifo. Tornando a quel giorno. Mio padre oltrepassò questo gruppo di persone e fece alcuni passi: si accorse che per terra c’era una sveglia, proprio accanto a una santella della Madonna dove c’era anche un piccolo luogo di sosta. La raccolse e tornò indietro, la consegnò a quei signori. Parlarono, questi ringraziarono mio padre. C’era una donna, fra questi, si chiamava Maria Löwi, disse a mio padre che del marito non aveva più avuto notizia dopo che era partito per un viaggio di affari per il Belgio. Soltanto di recente abbiamo saputo che venne internato e che morì, con ogni probabilità, ad Auschwitz. Niente. Passò del tempo, penso qualche settimana.
Io frequentavo le scuole elementari: un giorno esco da scuola e arrivo a casa. Di solito era mio padre che cucinava a mezzogiorno perché mia madre rientrava più tardi dallo stabilimento. Arrivo a casa e trovo una signora seduta al tavolo della cucina. Dopo un po’ arrivò mia madre e mio padre gli raccontò la vicenda. La donna non era sola, aveva due figli, erano la Marina che aveva sette anni e il Sighi che ne aveva dieci. E ricordo bene che mio padre disse a mia madre: «Che cosa facciamo?» E mia madre rispose: «Daga la stansa de sùra». In effetti al piano superiore c’era una grande stanza non utilizzata e c’erano anche un tavolo e un fornello elettrico. Ricordo benissimo le parole di mio padre che si rivolse a questa ebrea, alla Maria, e disse: "Venite che un boccone di polenta ci sarà anche per voi"».
Maria Löwi che era stata ospitata dai Rudelli e poi da Francesco Nodari e dalla moglie andò a stare dagli Ongaro due giorni dopo. Successivamente arrivarono anche i due bambini e per il piccolo Giovanni fu una festa. «Ero contento perché avevo altri bambini con cui giocare: pensi che il Sighi era nato nel mio stesso giorno, mese e anno: 31 gennaio 1933. Se oggi penso che anche loro potevano finire in uno di quei posti terribili...». Giovanni scuote la testa. Racconta che la permanenza in casa fu tranquilla, che non ci furono mai problemi se non una volta. «Ogni tanto i fascisti della Repubblica Sociale e i nazisti facevano controlli nelle case. Una volta vennero anche da noi quando in casa c’era soltanto la Maria. Fu la Maria a raccontarci. Arrivarono di mattina, lei li fece entrare, chiesero i documenti. Per fortuna in Comune c’era il Giovanni Servalli che lavorava all’anagrafe e preparava i documenti falsi per gli ebrei e per i rifugiati. Inventava nuove identità, provenienze. Gli consegnava anche le tessere per poter avere i generi alimentari. Insomma, chiesero i documenti, si guardarono in giro, ma poi restarono a osservare delle fotografie che le mie sorelle avevano appeso alla vecchia porta che scendeva in cantina: erano foto di attori, ce n’erano anche di tedeschi e i soldati restarono molto compiaciuti. La Maria disse poche parole per non tradirsi: parlava benissimo italiano e altre due lingue, ma aveva una pronuncia particolare che rischiava di tradirla. Così fece la timida spaventata, disse pochi monosillabi e se la cavò. Ma prese uno spavento terribile ».
Altri momenti di tensione la gente di Gandino li viveva quando suonavano le campane a martello e tutta la popolazione doveva andare nella piazza della chiesa per il controllo dei documenti. Ma non ci furono mai delazioni, la rete di solidarietà non venne spezzata. «C’era uno sfollato, un avvocato Palomba che aveva fama di essere stato fascista. Anche lui sapeva, ma non disse niente. Anzi, so che anche lui diede una mano agli ebrei. Certo, i repubblichini erano diversi, se lo sapevano loro era finita». Finì la guerra, mamma Maria e i due bambini furono salvi, emigrarono negli Stati Uniti. Maria morì come morirono i genitori di Giovanni. Oggi restano quelli che allora erano bambini. Dice Maria, moglie di Giovanni Ongaro: «Io la Marina l’ho conosciuta nel 1959 e poi ci siamo sempre sentite, anche adesso ci telefoniamo tutte le settimane. Lei abita a South Plainfield in New Yersey, il fratello Sighi abita in Florida a Boynton Beach. Lui viene da noi ogni due anni. L’anno prossimo il Comune di Gandino vuole fare una grande festa, invitare i discendenti degli ebrei di allora, sarà una cosa bellissima».
Marina Löwi ha scritto una lunga lettera ai gandinesi per il sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, quel 27 gennaio diventato «Giorno della memoria ». Si legge nella lettera, indirizzata al sindaco Gustavo Maccari: «Abbiamo ricevuto rifugio a Gandino da gente eroica. Anche loro intrappolati nella tempesta della tirannia nazista... Per questo per tutta la mia vita sono stata così grata alle persone che hanno dato rifugio a una giovane mamma con due bambini dai furori razzisti». Marina ringrazia tutti coloro che li aiutarono: «Vincenzo Rudelli, Giovanni Servalli, Bortolo e Battistina Ongaro, Francesco Lorenzo e Maria Chiara Carnazzi Nodari non solo per la mia famiglia, ma per altre famiglie ebree a rischio delle loro vite. Infatti, dopo anni di indagine, questa gente valorosa ha ricevuto una medaglia d’onore e un certificato e i loro nomi con fotografie saranno inseriti sulla "Parete d’onore dei Giusti" presso Jad Vashem a Gerusalemme ».

Autore: 

Paolo Aresi

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