25 aprile 1945, ancora si spara ma Bergamo volta pagina

La storia dell’avvocato Giovanni Motta (gandinese): comunista  della prima ora e partigiano della 53a Garibaldi viene insediato dal Cln alla guida della Provincia

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25/05/2015
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Comizio in piazza a Bergamo, sono i giorni della Liberazione: parla il colonnello inglese David  Morley-Fletcher, con lui sul palco gli esponenti del Comitato di liberazione nazionale
Giovanni Brasi, comandante della 53a Brigata Garibaldi,

Giovanni Motta è il primo presidente della Provincia di Bergamo nell’Italia liberata dai nazifascisti. Il 25 aprile del ’45 la situazione in città e in diverse zone delle valli è incerta. Il giorno precedente il Cln (il Comitato di liberazione nazionale che raggruppa i partiti antifascisti) riceve da Milano l’ordine di mobilitazione. Motta s’insedia alla guida della Provincia con l’incarico, come si diceva allora, di «preside», l’equivalente di commissario, mentre ancora i repubblichini sparavano le ultime raffiche: i fascisti tentano l’estremo assalto alla prefettura nelle ore in cui, il 26 aprile, il Cln prende possesso dell’edificio. Perché la situazione si stabilizzi bisogna aspettare il 30 aprile con l’arrivo dei reparti della brigata Goito dell’esercito di liberazione, comandati dal sottotenente Edoardo Cristofaro, e in seguito del commissario alleato, il colonnello inglese David Morley-Fletcher, che avrà un ruolo significativo nel primo periodo postbellico.

Motta era membro rappresentante del Partito comunista nel secondo Cln (costituitosi nell’aprile ’44 ed espressione di tutto il fronte antifascista) ed è indicato alla presidenza della deputazione provinciale dal vertice della struttura politica dell’antifascismo che, nella sua terza edizione sorta nel febbraio ’45, era presieduta dal comunista Roberto Petrolini e composta dai democristiani Rodolfo Vicentini e Livio Mondini, dagli azionisti Pierbernardino Zanetti e Pietro Sottocornola, dai socialisti Alfredo Meli, Battista Orlando Fumagalli e Lina Dasso, dai liberali Luigi Bruni e Prospero Giura, dai repubblicani Paolo Fuochi e Roggero, da Alfonso Scalpelli per il Fronte della gioventù (l’organizzazione giovanile del Cln) e da Battista Bonomi per la Camera del lavoro.
Giovanni Motta, che viene da un’agiata famiglia di Gandino, liceo al Mascheroni e laurea a Pavia, è un avvocato di 45 anni e ha alle spalle una lunga militanza antifascista: nel ’23 si era iscritto al Partito comunista con tutti i rischi che ciò comportava, a partire, essendosi rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista, dall’impossibilità di iscriversi all’Ordine che gli impedisce, di fatto, l’esercizio della professione. «Io allora – ricorda oggi il figlio Paolo – ero bambino. Dopo la guerra mio padre parlava poco di quel periodo che proteggeva con un senso di pudore. Era un idealista e si schiera con l’antifascismo da subito, senza alcun tentennamento. Non cantava “Bella ciao”, ma “Fischia il vento”, spiegandomi che era quella la prima canzone, il vero inno degli antifascisti». L’avvocato è controllato dal regime e quando Vittorio Emanuele III negli Anni ’20 arriva in visita a Milano è arrestato «preventivamente ». Nel frattempo tesse la sua rete: spesso s’incontra con l’avvocato ed ex parlamentare socialista Alessandro Tiraboschi, nello studio in via Sabotino a Bergamo: il legale, figlio dell’illustre Antonio Tiraboschi studioso delle tradizioni bergamasche, era stato presidente della Società di Mutuo Soccorso dal ’21 al ’39 quando fu sciolta dal regime fascista.

Motta, con la nascita delle prime bande partigiane, entra nella 53ª Brigata Garibaldi (nome di battaglia di «Ingegner Pietro Dolcini»), ma non sceglie la clandestinità. Continua la vita di sempre, senza dare nell’occhio. Il suo compito è quello di rifornire la Brigata di medicinali, armi, soldi e informazioni e far girare gli ordini fra le varie cellule. La 53 ª Garibaldi, comandata da Giovanni Brasi, ha come area d’azione la zona di Gandino e usa come base di supporto anche la casa della famiglia Motta, perché lì i partigiani trovano i viveri necessari e le cascine della Valpiana offrono un sicuro riparo per le formazioni.
Sono i mesi più difficili. Nel luglio ’44 due uomini della 53a Garibaldi vengono uccisi dai repubblichini in un agguato, l’anno dopo altri due perdono la vita in uno scontro a fuoco sul Farno. Val Gandino vuol dire l’eccidio della Malga Lunga, allora nel territorio di Gandino, avvenuto il 17 novembre del ’44. Quel giorno un reparto della 53ª finisce in un rastrellamento e nella battaglia restano sul terreno Mario Zeduri e il russo Starich. Gli altri sei partigiani, fra i quali Giorgio Paglia, dopo la cattura vengono trasferiti a Costa Volpino e fucilati il 21 novembre.
La casa dell’avvocato Motta è insieme un crocevia e un rifugio per gli antifascisti. Qui trova ospitalità per diversi mesi l’inviato del Pci nazionale, incaricato di organizzare i partigiani della Bergamasca, il futuro senatore Mario Mammucari, nome di battaglia «Brandani», già arrestato e più volte mandato al confino e ancora ricercato e passibile di condanna a morte.

Sulla vita in quella casa, il vice comandante della 53ª, Giuseppe Brighenti, nel suo libro «Il partigiano Bibi» ha lasciato questo spaccato di cronaca: «Una sera mi recai a Gandino, in casa dell’Avv. Gianni Motta, una base della nostra Brigata, per prendere materiale di stampa e di informazione (presente anche Brasi “Montagna”, comandante della 53 ª, ndr). In casa c’era anche l’Ing. Brandani, che così mi era stato presentato anche se in realtà si chiamava Mammucari, romano, comunista, ed incaricato di mantenere i rapporti con il centro del Partito. Seduto al tavolo coperto da un panno bianco, mi accorsi che i pidocchi, lasciati i miei indumenti, scendevano sul panno e circolavano con una certa velocità, contenti, si vede, di aver trovato un habitat più consono alle loro esigenze. Gli altri non se ne erano accorti. Io, che ero più esperto, avevo notato la cosa e subito, scusandomi per l’accaduto, mi alzai ed uscii dalla stanza, mentre la signora allontanava i bambini e provvedeva a rimuovere la tovaglia. Dovemmo andare in giardino a continuare la conversazione ».

Proprio il fatto di essere un antifascista di lungo corso è decisivo nella promozione dell’avvocato di Gandino a presidente della Provincia, il primo della Bergamo democratica, affiancato dal vicepresidente Luigi Rolla, farmacista. «È importante sottolineare che Motta – precisa Giovanni Cazzaniga, presidente dell’Anpi Val Gandino – non era un partigiano che ha fatto la sua scelta durante la stagione della lotta armata, ma come l’esito di una convinzione maturata giovanissimo e in coincidenza con la presa del potere da parte dei fascisti: il che, per un uomo dedito sin da subito alla causa dell’antifascismo, ha comportato anni e anni di pericoli crescenti e di privazioni sul piano umano e professionale».

Il mandato di Motta in Provincia dura sei anni con un reincarico, fino al 20 giugno ’51. La ricostruzione impegna energie e intelligenze, a cominciare dal rimpatrio dei deportati in Germania e dal sostegno alla Dalmine dopo il bombardamento del ’44. La Provincia ricostruisce l’ospedale psichiatrico, sistema la provinciale della Val Seriana e inaugura la seggiovia di Foppolo. Nel ’49 Motta riesce a portare a Bergamo il VII convegno internazionale dell’architettura moderna con Le Corbusier.
Celebri i moniti dell’illustre architetto affascinato da Città Alta: «Non toccate la fontana del Contarini», «Quando entro in casa di un amico lascio l’ombrello alla porta e di conseguenza anche a Bergamo i visitatori di Città Alta possono fare lo stesso con le auto». Finito il mandato, nel ’53 viene candidato al Senato, ma non ce la fa. Da allora segue la politica ai margini e confiderà agli amici la nostalgia per la mancata realizzazione dei valori della Resistenza.
Malato, muore nel ’66. Accanto la moglie Ines Mortini e i figli Bernardo e Paolo. Nel 1985 il Comune di Bergamo gli intitola una via in zona Conca Fiorita.

Autore: 

Franco cattaneo

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