Intervista al Nunzio apostolico di Haiti, il gandinese Mons. Luigi Bonazzi
E' un paradiso naturale, basti pensare che confina con la Repubblica Dominicana, meta preferita dei turisti italiani in cerca di esotico. Ma proprio Santo Domingo, dopo i sanguinosi scontri del gennaio scorso, ha decretato lo stato d'allerta alla frontiera con Haiti. Nunzio apostolico a Port-au-Prince è monsignor Luigi Bonazzi, bergamasco nato a Gandino, che ancora una volta insiste: «Per uscire da questa pericolosa situazione l'unica cosa da cercare è il dialogo». Un'affermazione importante, dopo che in questi giorni i ribelli hanno conquistato la città di Gonaives, la seconda del Paese con 200 mila abitanti che la polizia governativa ora punta a riconquistare: 11 persone sono morte venerdì negli scontri, ieri altre 7 (erano tutti agenti).
Qual è la situazione ora ad Haiti?
«La situazione è purtroppo quella di un Paese che in un giorno così importante come il 1° gennaio, quando ricorreva il bicentenario dall'indipendenza ha mostrato di essere profondamente diviso. Abbiamo avuto da una parte le cerimonie ufficiali di Aristide e del suo governo, e dall'altra, terminate queste cerimonie, l'inizio di manifestazioni di protesta numericamente significativa, fatta per domandare la sua partenza».
Chiedono l'esilio?
«Partenza significa che Aristide lasci il potere e che quindi il Paese sia preso in mano da altre persone. Si chiede non tanto l'esilio, quanto la sua estromissione dal governo».
Quante persone sono rimaste coinvolte da questi scontri?
«In questo momento abbiamo da una parte il presidente Aristide alla guida del partito Lavalas, che dice di rappresentare la gente, e dall'altra c'è un gruppo di forze diverse che sono tutti gli altri partiti dell'opposizione, oltre a commercianti, imprenditori, sindacalisti, artisti e intellettuali che gli stanno contro. Quindi un Paese profondamente diviso che non riesce a dialogare, perché da parte di Lavalas la convinzione è di non mettere in discussione il mandato del presidente Aristide, dall'altra parte il punto primo, la richiesta fondamentale è quella di estromettere il presidente, considerato come un ostacolo determinante a poter cambiare le cose nel Paese. Si è davanti a un empasse molto molto serio, che potrebbe produrre dei grandi disordini, perché da una parte gli oppositori del presidente non vedono altra possibilità di farlo partire che quella di continuare a ricorrere alle manifestazioni popolare, e dall'altra Aristide e i suoi considerano tali manifestazioni come una dichiarazione di guerra. Quindi reagiscono usando la polizia e anche delle milizie popolari che stanno nelle loro mani che fanno la guerra e possono creare grandi disordini. C'è stato da parte degli Stati Uniti un richiamo forte e solenne a questo governo che non si può infierire sui manifestanti con le armi. Non so quanto questo richiamo sarà ascoltato».
Perché, non c'è un particolare legame tra Aristide e gli Stati Uniti?
«Il peso degli Usa dipende dal fatto che in realtà Aristide è tornato in Haiti portato da 20 mila marines americani. Il presidente gode ancora di appoggi negli Stati Uniti. Magari non presso l'amministrazione, ma presso i parlamentari americani neri, anche perché Aristide ha fatto una grossa campagna di lobbing in questo senso. Dipende anche dal fatto che non ci sono forze interne al Paese che potrebbero far sentire il loro peso per dire "no, ci sono cose che non sono tollerabili". Nella lotta che si sta svolgendo all'interno del Paese, una lotta che non ha un chiaro esito, perché da una parte c'è chi manifesta ma senza le armi e c'è chi reagisce, ma con le armi, ora, è difficile per le forze haitiane lasciate sole trovare uno sbocco, perché lo sbocco potrebbero essere forti disordini».
Visto il quadro che lei descrive verrebbe da usare per la presidenza di Aristide il termine «dittatura». Un accostamento troppo azzardato?
«È un aspetto che anche i vescovi considerano. Già a novembre la Chiesa haitiana ha lanciato un grido di allarme a non avventurarsi di nuovo verso la dittatura, la demagogia e il pregiudizio di colore».
Quale ruolo ha la Chiesa in questo scenario di insicurezza diffusa?
«È in corso un tentativo da parte della Chiesa cattolica, ma che vorrebbe essere condiviso anche con le altre Chiese, di proporre una soluzione. Lo spirito di questa proposta, che è ancora in fase di elaborazione, è quello di invitare tutti a raggiungere un'intesa. Un compromesso che non è compromissione. Ciò sarà possibile solo domandando a chi è al potere di ritirarsi un po', lasciando spazio a gente nuova, ma anche chiedendo a chi crede che la soluzione a tutti i problemi sia che Aristide parta, di rinunciare a questo».
Intanto le principali vittime di questo stato di disordine sono i poveri...
«I poveri sono strumentalizzati due volte: perché sono poveri, e quindi si mettono al servizio di chi dà loro un po' di soldi, e perché questa non è la maniera di rispondere ai bisogni del Paese. In realtà rimane come problema base di Haiti la grande divisione tra ricchi e poveri, l'assenza di giustizia. E nella sua proposta la Chiesa vorrebbe proprio richiamare tutti a questo fatto, e far capire che se non c'è un serio impegno da parte di tutti di risolvere la questione delle classi popolari che sono lasciate ai margini, sarà sempre precaria ogni altra soluzione».
Precarietà aggravata dagli scontri di piazza. Come vive lei a Port-au-Prince questo stato d'allerta?
«L'insicurezza che potrebbe riservare sorprese, a tanti, negli ultimi tempi è cresciuta. Gli appartenenti a queste bande armate rischiano di diventare dei fuorilegge che approfittano della situazione per aggredire, minacciare e fare incursioni. E non è facile proteggersi. Da parte dei cattolici cresce intanto l'attesa, e la si accompagna con la preghiera. La Chiesa cerca di far capire anche ai suoi fedeli che l'antagonista non è mai nemico, ma fratello. La mia speranza è che tutti si convincano che il Vangelo della pace è anche il Vangelo del dialogo».
Cosa è il dialogo?
«Dialogo significa che mai la forza delle armi deve imposi sulla convinzione che l'altro deve essere rispettato. E l'altro è innanzitutto il Paese. E i suoi bisogni».