Dal 24 aprile don Eugenio Coter sarà vescovo della diocesi di Pando, grande come il Nord Italia«Migliorata la prosperità sociale, di fronte alla globalizzazione si inseguono offerte più luccicanti»
Per la Bolivia ci sono sicuramente speranze. Negli ultimi anni è migliorata la prosperità sociale ed economica, cioè la “bonanza”, come si dice qui, e c’è un po’ più di distribuzione di ricchezza. Però questa “bonanza” non ha sconfitto il grande divario fra popolazione e le élite di potere e neppure il retaggio di fragilità economica. Di fronte al nuovo della globalizzazione c’è il rischio di smarrire valori di una storia ricca per assumerne altri che valgono meno ma sono più luccicanti».
Sono le parole di don Eugenio Coter, nominato vescovo vicario apostolico di Pando in Bolivia il 2 febbraio scorso da Papa Benedetto XVI. Don Coter, 56 anni il prossimo 11 luglio, è nativo di Semonte di Vertova. Dopo l’ordinazione sacerdotale (20 giugno 1981) è stato curato di Grassobbio e di Gandino. Nel 1991 sbarca in Bolivia, nell’arcidiocesi di Cochabamba, come missionario Fidei donum.
È stato parroco, delegato episcopale per la pastorale sociale e la Caritas e direttore spirituale del Seminario. Don Coter riceverà l’ordinazione episcopale la sera del 24 aprile durante una Concelebrazione eucaristica a Riveralta, il centro maggiore dell’estesissimo vicariato apostolico con una superficie di oltre 86.000 chilometri quadrati, quasi come l’intero Nord Italia, con una popolazione di soli 210.000 abitanti, 6 parrocchie e 14 preti diocesani.
Con quali sentimenti ha accolto la nomina?
«Innanzitutto un senso di stordimento già al momento in cui il nunzio apostolico in Bolivia mi comunicava la nomina, pensando alla nuova responsabilità di accompagnare altri fratelli nel cammino di fede. Poi mi ha rincuorato la fiducia espressa verso di me dalla Chiesa boliviana e dal Papa».
Ha un progetto pastorale per il vicariato apostolico di Pando?
«Non parto con programmi miei, perché sento di dovermi inserire nel cammino della Chiesa di Pando, cioè nella “carovana” di questi cristiani, prendere il loro passo e aiutarli in un cammino di fede già percorso da altri per proiettarlo in avanti. Un cammino percorso soprattutto da tanti laici, da preti, religiosi e religiose su un territorio vasto come il Nord Italia e che ha bisogno dell’impegno di ogni credente per costruire una comunità cristiana in ogni centro abitato, immerso nella foresta o posto lungo i fiumi».
Con la sua nomina salgono a quattro i vescovi bergamaschi in Bolivia. È un segno di stima della Chiesa locale e della Santa Sede?
«Penso proprio di sì. Anche se non è prioritaria, l’origine dei vescovi è colta come espressione di una Chiesa antica, con una storia religiosa di grandi tradizioni. Un problema potrebbe essere la suscettibilità locale verso la presenza di vescovi bergamaschi, quasi fosse contrapposta o staccata dal clero boliviano. Più che l’origine geografica, sono due i fattori che contano per noi quattro vescovi bergamaschi. Innanzitutto il lungo tempo di condivisione e di lavoro pastorale vissuto con la Chiesa e il clero della Bolivia. Poi la ricchezza dell’esperienza della Chiesa bergamasca che abbiamo portato in terra boliviana».
Quali sono le esperienze pastorali in Bolivia che le rimangono stampate nel cuore?
«Direi tutte con le loro diverse caratteristiche. Dapprima l’aver lavorato nel ministero diretto nelle parrocchie, poi il cammino e le sfide dei dodici anni di impegno intenso nell’arcidiocesi per promuovere la carità a fianco dell’arcivescovo Tito Solari, salesiano, uomo di grande fede e di Chiesa, con formazione in sociologia a Trento e con spiccata sensibilità sociale. Poi, da un anno, la sfida del mettermi accanto ai seminaristi per l’accompagnamento spirituale. Ringrazio il Signore per i doni di queste esperienze».
Alla luce della sua esperienza di delegato episcopale per la pastorale sociale e la Caritas, quali sono i bisogni della popolazione boliviana?
«Negli ultimi anni è migliorata la prosperità sociale ed economica, con un po’ più di distribuzione di ricchezza. Tutto questo però deve diventare stabilmente un investimento produttivo ed economico, altrimenti il retroterra di fragilità è destinato a rimanere. Di fronte al nuovo della globalizzazione c’è il rischio di smarrire valori di una storia ricca per assumerne altri che valgono meno ma sono più luccicanti».