Parla monsignor Gelmi, vescovo ausiliare di Cochabamba in Bolivia «La porta aperta del Patronato di don Bepo è diventata la Ciudad de los niños»Domenica 22 ottobre si celebra in tutte le parrocchie la Giornata mondiale delle Missioni che quest'anno
Parla con dolcezza della sua Chiesa d'origine, monsignor Angelo Gelmi (nativo di Gandino, 68 anni, di cui 21 come vescovo ausiliare di Cochabamba in Bolivia) e non nasconde di nutrire diverse speranze per il Sinodo della Chiesa di Bergamo.
Come ha appreso la notizia dell'indizione del Sinodo?
«Il primo sentimento è stata la gioia. L'annuncio che una comunità, una diocesi decida di riflettere sul proprio cammino è sempre un grande segno di speranza, una scelta che non vuole mettere in dubbio la propria fede ma verificare il proprio essere nel mondo annuncio del Vangelo. È un tempo di semina».
Il Sinodo è dedicato interamente alla parrocchia. Come trova le comunità bergamasche ogni volta che torna a casa?
«Sono comunità maturate, e direi che sono particolarmente sensibili alla missionarietà, attente a cosa avviene al loro esterno. Certo non manca la secolarizzazione, ma in parallelo abbiamo una forte presa di coscienza della propria fede e quindi di un percorso molto serio e preparato. Diciamo che oggi chi si definisce cristiano non lo è solamente per nome, al suo credere segue un'attività, un impegno concreto nella comunità».
Quale apporto possono dare i missionari ai lavori del Sinodo?
«C'è uno stretto legame tra la diocesi di Bergamo e i suoi missionari, abbiamo ricevuto il materiale, il quaderno e un sacerdote incaricato è venuto in Bolivia a spiegarci tutte le fasi del Sinodo. C'è quindi una costante attenzione da parte dei missionari e c'è un forte senso di ecclesialità, di interscambio di ricchezze tra la Chiesa di Bergamo e la Chiesa di Bolivia: si sorreggono e si confrontano a vicenda. È un po' come se una pianta più grande sostenesse con la sua robustezza quella più piccola che le è accanto ed è più fragile».
In che cosa consiste questo interscambio?
«Ci sono delle difficoltà che entrambe le Chiese vivono. Se a Bergamo, come in tutta Europa c'è una crescente secolarizzazione, noi stiamo vivendo in Bolivia un forte sentimento di anticlericalismo dovuto ad una maggioranza di governo marxista. Come vede tutte e due le Chiese hanno figure e valori contro cui confrontarsi, ma il fine ultimo di tutti i credenti è l'annuncio del Vangelo, l'impegno nella promozione umana, nella difesa della vita, nello sviluppo e nell'educazione delle giovani generazioni alla luce della Parola di Cristo. Abbiamo sfide comuni, ma un'unica radice e un'unica forza che è il Vangelo e l'Eucaristia».
Una missione e un annuncio comuni…
«Sì, esattamente. Si parla spesso di globalizzazione, ma solo come un fenomeno economico. Invece la prima “globalizzazione” è l'annuncio di Cristo al mondo con i suoi missionari. In Bolivia, come in Sudamerica o in Africa e Asia, dove ci sono i poveri, gli ultimi, i contadini o i lavoratori sfruttati c'è sempre un missionario, una suora, un laico che prega e aiuta coloro che sono ai margini per riscattarli dalla loro croce. Le barriere delle nazioni non sono solo da abbattere in senso economico, ma si deve guardare anche allo sviluppo delle persone, alla loro possibilità di istruirsi e di tutelare la loro dignità di uomini».
C'è una via comune, un esempio che può aiutare la Chiesa?
«Non mancano gli esempi, penso ai santi, ma anche a molti genitori e a laici impegnati che vivono e operano in un discreto silenzio cristiano. Io ho poi una figura eccezionale di riferimento: don Bepo Vavassori. Quella porta aperta del Patronato San Vincenzo è diventata spalancata con la Ciudad de los niños in Bolivia. Ogni cristiano in fondo è già di per sé missionario. Prima di tutto verso la propria famiglia e la propria Chiesa».
Come ha appreso la notizia dell'indizione del Sinodo?
«Il primo sentimento è stata la gioia. L'annuncio che una comunità, una diocesi decida di riflettere sul proprio cammino è sempre un grande segno di speranza, una scelta che non vuole mettere in dubbio la propria fede ma verificare il proprio essere nel mondo annuncio del Vangelo. È un tempo di semina».
Il Sinodo è dedicato interamente alla parrocchia. Come trova le comunità bergamasche ogni volta che torna a casa?
«Sono comunità maturate, e direi che sono particolarmente sensibili alla missionarietà, attente a cosa avviene al loro esterno. Certo non manca la secolarizzazione, ma in parallelo abbiamo una forte presa di coscienza della propria fede e quindi di un percorso molto serio e preparato. Diciamo che oggi chi si definisce cristiano non lo è solamente per nome, al suo credere segue un'attività, un impegno concreto nella comunità».
Quale apporto possono dare i missionari ai lavori del Sinodo?
«C'è uno stretto legame tra la diocesi di Bergamo e i suoi missionari, abbiamo ricevuto il materiale, il quaderno e un sacerdote incaricato è venuto in Bolivia a spiegarci tutte le fasi del Sinodo. C'è quindi una costante attenzione da parte dei missionari e c'è un forte senso di ecclesialità, di interscambio di ricchezze tra la Chiesa di Bergamo e la Chiesa di Bolivia: si sorreggono e si confrontano a vicenda. È un po' come se una pianta più grande sostenesse con la sua robustezza quella più piccola che le è accanto ed è più fragile».
In che cosa consiste questo interscambio?
«Ci sono delle difficoltà che entrambe le Chiese vivono. Se a Bergamo, come in tutta Europa c'è una crescente secolarizzazione, noi stiamo vivendo in Bolivia un forte sentimento di anticlericalismo dovuto ad una maggioranza di governo marxista. Come vede tutte e due le Chiese hanno figure e valori contro cui confrontarsi, ma il fine ultimo di tutti i credenti è l'annuncio del Vangelo, l'impegno nella promozione umana, nella difesa della vita, nello sviluppo e nell'educazione delle giovani generazioni alla luce della Parola di Cristo. Abbiamo sfide comuni, ma un'unica radice e un'unica forza che è il Vangelo e l'Eucaristia».
Una missione e un annuncio comuni…
«Sì, esattamente. Si parla spesso di globalizzazione, ma solo come un fenomeno economico. Invece la prima “globalizzazione” è l'annuncio di Cristo al mondo con i suoi missionari. In Bolivia, come in Sudamerica o in Africa e Asia, dove ci sono i poveri, gli ultimi, i contadini o i lavoratori sfruttati c'è sempre un missionario, una suora, un laico che prega e aiuta coloro che sono ai margini per riscattarli dalla loro croce. Le barriere delle nazioni non sono solo da abbattere in senso economico, ma si deve guardare anche allo sviluppo delle persone, alla loro possibilità di istruirsi e di tutelare la loro dignità di uomini».
C'è una via comune, un esempio che può aiutare la Chiesa?
«Non mancano gli esempi, penso ai santi, ma anche a molti genitori e a laici impegnati che vivono e operano in un discreto silenzio cristiano. Io ho poi una figura eccezionale di riferimento: don Bepo Vavassori. Quella porta aperta del Patronato San Vincenzo è diventata spalancata con la Ciudad de los niños in Bolivia. Ogni cristiano in fondo è già di per sé missionario. Prima di tutto verso la propria famiglia e la propria Chiesa».
Data di inserimento:
16-10-2006