Talebani in Val Gandino. E Orio manda gli elicotteri

Addestrati alla base del 3° Reggimento Aves Aquila gli uomini che a fine marzo andranno in AfghanistanSimulato il soccorso a un convoglio sotto attacco

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21/01/2012
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La postazione del mitragliere, chiamata «il canile» per la sua scomodità
Un elicottero AB205 in azione tra le montagne della Val Seriana e della Val Gandino durante l'esercitazione.

«Ma perché andate ad addestrarvi per l'Afghanistan in mezzo alle risaie di Vercelli? Quelli sono posti da vietcong, mica da talebani». Questo sembra chiedere la nebbia che avvolge Orio al Serio, base del 3° Reggimento Aquila dell'Aviazione dell'Esercito, in una fredda mattina di gennaio. Non è una novità del resto, da Waterloo allo sbarco in Normandia, che le bizze del meteo si divertano a giocare con i piani militari. E allora nulla di strano se questa volta il tempo se l'è presa con un'esercitazione, decidendo di invadere la Val Padana con uno di quei nebbioni di cui si era perso il ricordo. Ma in Afghanistan, nebbia o non nebbia, gli effettivi dell'Aviation battalion che si sono addestrati a Orio e saranno dislocati a Herat a fine marzo, ci dovranno andare comunque. E la loro provenienza eterogenea (1° Reggimento Antares di Viterbo, 3° Aquila Orio, 4° Altair Bolzano, oltre a basi diverse sparse in tutta Italia) rende l'amalgama decisiva in vista dell'immissione in un teatro operativo dove dal minimo dettaglio potrà dipendere la vita propria e degli altri.
L'imboscata e i feriti
E allora sotto con il piano B, che prevede un «chair flight», volo sulla sedia, una lunga simulazione nell'aula briefing del 3° Aquila. Le comunicazioni avvengono in inglese e il colonnello Arrigo Arrighi – comandante del 4° Altair di Bolzano, che guida il lavoro di Orio – raccomanda un ripasso: «Ho visto un po' di ruggine, si parla un po' troppo italenglish». «Scusate comandante – risponde con fatalismo e accento tutti meridionali una voce in fondo alla sala –: noi l'inglese lo possiamo anche ripassare, ma voi avete presente come lo parlano gli americani?». C'è spazio anche per sorridere in una settimana di duro addestramento, in cui la capacità di sdrammatizzare diventa fondamentale.
A un certo punto, nel primo pomeriggio, la nebbia si alza e i bollettini meteo danno una visibilità di 1.300 metri. Abbastanza per alzarsi in volo e andare a soccorrere un convoglio Isaf attaccato dai talebani con un Ied (improvised esplosive device, i micidiali ordigni comandati a distanza con il cellulare) tra i monti della Val Gandino, un'area definita dall'intelligence come «calda». Ci sono feriti di categoria B, ovvero non in pericolo di vita se trattati all'interno della «golden hour», l'ora d'oro, i 60 minuti successivi al ferimento che nella maggior parte dei casi sono quelli decisivi.
Roccoli e ciminiere
Il team di soccorso al convoglio assalito è composto da sei elicotteri, che agiscono a coppie. Due A129 Agusta (che per le comunicazioni avranno nome in codice Thomahawk), i più tecnologicamente evoluti, rapidi e maneggevoli – sono armati con un cannoncino anteriore da 20 millimetri il cui puntamento viene effettuato dal pilota semplicemente ruotando il casco, senza distogliere le mani dai comandi – hanno il compito di fare «pulizia aerea» e dare poi «green light», luce verde, alle due coppie successive. Una è formata da due AB205 Agusta Bell, che trasportano la Qrf (nome in codice Chalk 1), acronimo inglese che indica la forza di reazione rapida, truppe di supporto fresche. Normalmente in teatro operativo questo ruolo viene svolto dai Boeing CH47, i grandi elicotteri da trasporto con doppia elica, ma in questa occasione tocca agli AB205, una «via di mezzo» buona per ogni utilizzo, al punto che gli americani le hanno dedicato uno slogan: «Quando l'ultimo elicottero sarà andato al cimitero, i piloti torneranno con un 205». E dai 205 è infatti formata anche la terza coppia di elicotteri della squadra di soccorso (quella della Mevac, medical evacuation, nome in codice Chalk 2), appositamente attrezzati per lo sgombero dei feriti. La squadra di elicotteri risale l'ampia e industrializzata valle del Serio, che per la verità poco ha in comune con quelle inaccessibili dell'Afghanistan, covo dei mujaheddin ai tempi dell'invasione sovietica e dei talebani oggi. Così come è difficile immaginare i roccoli, veri gioielli di ordine e pulizia, come temibili nidi di contraerea. Giusto le ciminiere del complesso Pigna di Alzano, viste da lassù, hanno una vaga rassomiglianza con i quattro minareti superstiti della grande moschea di Herat, distrutta negli anni Novanta dai bombardamenti incrociati dei signori della guerra che si contendevano la città.
Missione compiuta
Il luogo dell'attacco è una spianata sul monte Farno, sopra Gandino. «State distanziati – raccomanda il colonnello Arrighi –. Più stiamo vicini e più siamo un bersaglio facile. Non siamo qui a farci fare una foto di gruppo». Anche perché gli «insurgents», gli insorti, informa da terra il convoglio assalito (il cui nome in codice è Bardo) «sono armati di lanciagranate Rpg». Nelle successive fasi dell'operazione vengono simulati problemi e avarie di varia natura: «Sono al Bingo», cioè a secco di carburante, comunica un pilota, che a questo punto si sgancerà per andare al più vicino Advanced refuelling point (punto di rifornimento avanzato) della fitta rete predisposta sul terreno in Afghanistan dalle forze Isaf.
L'esercitazione è finita, si torna a Orio. «Abbiamo ancora parecchio da lavorare» commenta Arrighi con un sospiro serio, ma non preoccupato, mentre guarda lontano gli ultimi raggi del sole, che giocano infilandosi tra l'azzurro del cielo e il grigio della cappa che avvolge il mondo sottostante: «C'è una tempesta di sereno quassù, sopra la nebbia».

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