L’atto di emancipazione è detto «Il tavolone» per le sue dimensioni: 6 metri di lunghezza
Era il 6 luglio 1233. Fu un momento decisivo per la futura autonomia di tutta la valle
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Era, secondo l’antico calendario giuliano, un mercoledì di luglio di quasi otto secoli fa: Gandino acquistava, in senso strettamente letterale, la sua libertà. Il 6 luglio del 1233 l’operosa comunità della Val Seriana stipulava l’atto più importante di una storia millenaria, dato che il «vicus de Gandino» è citato nei documenti d’archivio fin dall’anno 830.
A indagare la cronaca di quel memorabile giorno è stato in questi anni lo storico Pietro Gelmi, riferimento irrinunciabile per tanti studiosi che incrociano le strette strade del borgo gandinese e autore principale, nel 2012, di un volume antologico edito dal Comune. «La firma del 6 luglio – spiega Gelmi – sancì l’Emancipazione della comunità di Gandino e Cirano (oggi con Barzizza frazione del Comune) dalla signoria dei Ficieni di Bergamo: un atto di portata storica, perché segnò la nascita di un libero comune rurale che, svincolatosi dalle pastoie dei diritti feudali, acquistò piena capacità di agire autonomamente. Un definitivo “via libera” alle attività artigianali, industriali e commerciali che nei secoli successivi hanno dato prosperità alla Valle».
Luogo della firma fu il portico dell’antica chiesa parrocchiale, dedicata alla Vergine Maria. Era collocata su quella che oggi si chiama Piazza Emancipazione (proprio a ricordo dell’Atto). Il portico fu demolito nel 1421, quando fu innalzata la nuova chiesa quattrocentesca, poi sostituita dall’attuale basilica, la cui prima pietra fu posata nel 1623. «L’Atto di Emancipazione – aggiunge Gelmi – è uno strumento molto complesso e notevolmente lungo: misura 6,50 metri di lunghezza e 45 centimetri di larghezza. Per questo fu ben presto soprannominato il Tavolone. Consta di più fogli di pergamena, cuciti l’uno di seguito all’altro con cordicella di canapa. Il popolo fu convocato “ad tolam batutam et ad campanas sonatas”, cioè con il suono delle campane e da un banditore che percuoteva una lamiera con mazza di legno. L’arengo (sagrato) era all’epoca il cimitero, una distesa d’erba lussureggiante, con qualche tomba qua e là. La maggior parte dei morti, infatti, veniva sepolta in profonde fosse comuni ». Il feudatario che siglò con i gandinesi l’Atto del 1233 fu Arpinello Ficieni, figlio di Attone, da cui ereditò il feudo della Val Gandino nel 1226, quando ancora era minorenne (la maggiore età era a 16 anni secondo il diritto longobardo).
Arpinello, per carenza di liquidità, sotto la spinta dell’economia di mercato, fu costretto a trattare con il comune di Gandino la vendita dei diritti feudali ricevuti dagli avi. «Fu – conferma Gelmi – una vera e propria compravendita di diritti feudali gravanti sugli immobili degli uomini di Gandino e di Cirano entro i confini territoriali del comune o goduti in comunione con gli uomini di altre terre. Possiamo suddividere i diritti in quattro grandi tipologie: il districtus, complesso di poteri che andavano dalla riscossione di tributi ai diritti su pesi e misure, fino alla percezione di prestazioni pecuniarie o in natura o in servizi (corvée); il fodrum, diritto a ricevere sostentamento per il signore e il suo seguito; i pasti, diritto di ricevere pasti gratuiti per sé e il proprio seguito; le albergherie, fornitura gratuita di alloggio al signore e al suo seguito». Alla stipula dell’atto la comunità gandinese era rappresentata dai tre consoli in carica pro tempore: Alberto di Pietro de Ocha, Domenico di Sivernato Zucconi e Negrobono di Lazzaro Conzali (i primi due della contrada di Cirano e l’altro di Gandino).
Leggendo tutti i dettagli e le postille del «Tavolone » si rileva come i gandinesi vollero assicurarsi piena libertà da ogni e qualsiasi vincolo pagando 950 lire imperiali. «Al momento della firma – conclude Gelmi – davanti alla lunga pergamena vennero condotti cinque ragazzini, che ricevettero un sonoro ceffone, affinché il ricordo di quell’evento rimanesse indelebilmente impresso nelle loro menti e potesse essere tramandato ai figli e ai figli dei loro figli».
Il «Tavolone» è oggi conservato nell’Archivio storico di Gandino, nel Salone della Valle di Piazza Vittorio Veneto, non a caso dominato, sul soffitto, da una grande tela del pittore Pietro Servalli che rappresenta l’atto della firma. Il 6 marzo 1247, venne rogitato a Bergamo un secondo atto pubblico, che emancipava i gandinesi dalla «decima» dovuta alla famiglia Adelasi di Bergamo. In questo caso il corrispettivo fu addirittura più elevato: 1.010 lire imperiali, oltre a 50 lire una tantum a titolo di locazione perpetua di beni fondiari. Sotto il portico della chiesa di Santa Maria di Gandino fu infine siglato un terzo atto, il 4 agosto del 1250, con cui Pietro fu Riboldo di Attone de Guerzio de Castello, abitante a Gandino, trasferì, a titolo di locazione perpetua, gran parte dei propri diritti. Negli anni dispari, alla vigilia della prima domenica di luglio (quando Gandino festeggia i santi martiri patroni Quirino, Valentino, Ponziano e Flaviano), la Pro Loco organizza la rievocazione storica «In Secula », per raccontare con costumi e allestimenti originali questa e altre pagine della ricca storia gandinese.