«Noi, donne e bimbe, custodi dei bozzoli»

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Data pubblicazione: 

06/05/2004
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Parla di un mondo lontano che ormai non c'è più, la signora Costanza Zanardi quando ti racconta come si lavorava la seta in Valgandino. Ti racconta di quando bambina lasciò la scuola per aiutare la famiglia a guadagnare di che vivere con la coltivazione dei bachi. Ti racconta di un territorio dove ci si muoveva a piedi e dove più tardi sono arrivati le strade, le corriere, i capannoni. Ti racconta che finita la Seconda guerra mondiale la lavorazione della seta scomparve dalle nostre valli perché gli americani avevano portato la libertà, il chewingum e il nylon. Alla fine ti racconta anche che oggi i bachi bisogna andare a comprarli a Padova perché da noi nessuno più li coltiva. Costanza ha 74 anni, vive a Bianzano ed è una delle ultime testimoni del mondo della seta negli anni '30 e '40. Per questo è anche una delle protagoniste della rievocazione storica di Bianzano, durante la quale mostra quello che faceva da bambina per dipanare i bozzoli di seta. «Dalle nostre parti c'erano quattro filande – racconta – a Trescore, Ranzanico, Bianzano e Gandino. Eravamo noi donne, mamme e bimbe, a lavorare la seta. Una zia andava a Trescore a comprare i bachi: comprava una o due once di uova piccolissime, che su una mano ne potevi tenere a migliaia. Li portava a casa e per i primi tempi erano animaletti piccolissimi, quasi invisibili: per farli crescere e "filare" li si teneva in cucina, al caldo, vicini alla stufa. Tritavamo le foglie di gelso fini fini per dargli da mangiare e poi bisognava lasciare accesa tutta notte la luce di una candela. Man mano che le larve crescevano le si metteva su tavole più grandi. Poi, quando prendevano un colore simile a quello dell'oro, erano mature e potevamo metterle sui rami degli alberi per farle crescere. I bruchi tra le foglie cominciavano a produrre il loro bozzolo. Quando i bozzoli erano pronti, li staccavamo dai rami. Finita la loro raccolta tornavamo a Trescore dove i commercianti decidevano quali bachi comprare. Quando ci andava bene li compravano tutti e noi tornavamo a casa con qualche soldino che ci aiutava a tirare avanti. Quando, invece, non erano belli li riportavamo a casa e li lavoravamo noi. In una bacinella si scaldava dell'acqua che doveva bollire continuamente. In questo modo il filo di seta si staccava dal bozzolo e con le mani immerse nell'acqua bollente potevamo cominciare a dipanarlo. Se il filo si rompeva occorreva fare un nodino, riallacciarlo e ricominciare. In filanda, a cavallo tra gli anni '30 e '40, invece c'erano già le prime rudimentali macchine. Si stava via tutta la settimana, e si lavorava anche il sabato».
E poi non era come per le mondine in risaia: «In filanda – continua Costanza – dovevamo sempre stare zitte e attente al nostro lavoro. Non potevamo parlare tra di noi. C'era il padrone o la soprastante, la capa, che tutto il giorno andavano su e giù pronti a colpire con una bacchetta chi non lavorava. Preparavamo qualcosa da mangiare: una zuppa, una polenta. Ricordo che la seta serviva al governo per fare i paracadute dei soldati in guerra».
«Ora qui da noi nessuno più coltiva i bachi e non cresce più nemmeno il gelso – continua Costanza –. Per la rievocazione vanno a prenderli dalle parti di Padova: li hanno cercati con Internet, non so come fanno, ma fin che li trovano continuerò a scottarmi le mani, come succedeva quando ero bambina».

Autore: 

Giuseppe Arrighetti

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