«Maiàssa» e «cruca» nella cucina povera del Venerdì Santo

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08/04/2004
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Un tempo i fedeli nel periodo quaresimale osservavano un rigido digiuno, che durava 40 giorni. Oggi lo si osserva, e non sempre, nei soli venerdì di quaresima, mentre rimane ancora radicata la tradizione di non mangiare carne e salumi il Venerdì Santo. A Gromo, proprio il «venerdì delle tenebre», e solo in questo giorno dell'anno, da tempo immemorabile si confeziona la torta «maiassa» o «bortolina». Fino a una ventina di anni fa tutte le famiglie la preparavano. Terminata la processione con il Cristo morto, la gente verso le 22,30 tornava a casa e qui, nell'intimità familiare mangiava, facendosi prima il segno della Croce e ringraziando il Signore, una fetta di «maiassa». Oggi sono poche le famiglie che la preparano in casa. Si preferisce acquistarla nei panifici del paese, che la cucinano su ordinazione. La tradizione di consumarla in famiglia dopo la processione è, comunque, rimasta. Con una novità: parecchie persone, soprattutto quelle che giungono a Gromo da fuori per seguire la processione, possono assaggiarla nei bar del paese. Alba Terzi, 63 anni ben portati, che con i figli Chicco e Mauro gestisce il ristorante «Posta al Castello», ogni anno prepara questo dolce, che poi offre ai suoi avventori subito dopo la processione del Venerdì Santo. «La ricetta – spiega – risale sicuramente al 1800, è praticamente quella che seguiva mia mamma Salvina e che io a suo tempo mi sono scritta». Per una «maiassa» per 8/10 persone, Alba predispone un paio d'etti di fichi secchi, un chilo di farina bianca, una manciata di farina gialla, 50 grammi di lievito di birra, una bustina di lievito, quattro mele renette, un pizzico di sale, 150 grammi di zucchero e 3/4 rondelle di porro. «Predisposto il tutto – continua – sciolgo il lievito in acqua tiepida e lo unisco all'impasto fatto con le farine, i fichi e le mele tagliati a pezzettini, il sale, lo zucchero e i porri. Vi aggiungo un po' di latte, metto in padella e via nel forno, dove cuoce per un'ora a 180 gradi». A mezzogiorno del Venerdì Santo era e viene ancora osservato il digiuno. Racconta Renato Imberti, 61 anni, chef dell'albergo «Belvedere» di Parre e presidente del Club Buongustai Valle Seriana e Bassa bergamasca: «Ricordo che quand'ero piccolo, il Venerdì Santo mia mamma preparava piatti a base di verdure. Uno di questi era la "zuppa dei prati", secondo una ricetta che anch'io di tanto in tanto rispolvero nel periodo primaverile: per preparare questo piatto si utilizzano oltre 20 erbe che crescono spontaneamente nei prati, come il tarassaco, la salvia selvatica, la silene, le primule, le ortiche, le punte di luppolo e così via. Si uniscono tutte queste erbe, si fanno lessare per una ventina di minuti quindi vi si aggiunge un pizzico di sale e un uovo a persona». Altro piatto che ancor oggi si consuma il Venerdì Santo a Clusone e in alta valle, ricorda Franco Fiorina, 65 anni, è quello a base di baccalà. A Gandino, invece, c'è la «cruca», una sorta di focaccia confezionata con farina di grano, uva sultanina, noci, olio, cannella e lievito, tutti amalgamati, cotta al forno per circa tre quarti d'ora. «È un dolce tipico ed esclusivo di Gandino – spiega Fausto Picinali, "prestinaio" che prepara la "cruca" da 30 anni solo in occasione del Venerdì Santo –. Ogni anno ne confezioniamo circa 150 e vanno via tutte».

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