Dal mais spigato all’agricoltura sostenibile

Corso di tre giorni

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Data pubblicazione: 

16/10/2013
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«A chi mi domandasse che veleno è questo? Io risponderei senz’altro: è la miseria col troppo lavoro, ed è la miseria congiunta alla moralità e alla abnegazione».
Parole di Filippo Lussana (cui è dedicato il liceo scientifico in città) che così scriveva in una memoria del 1881 all’Istituto Veneto di scienze, riguardo la coltivazione del mais. Lussana fu medico e direttore dell’Ospedale civile di Gandino fra il 1850 e il 1860, e qui fu pioniere delle indagini epidemiologiche fra i contadini, stabilendo una stretta connessione fra alimentazione e malattie sociali. Spiegò che le malattie (ad esempio la pellagra) erano legate al poco equilibrio nutrizionale.
Per questo si battè per eliminare la tassa sul sale, che mancava ai più poveri. Insomma a «far male» non era certo la polenta, quanto il contesto di povertà e duro lavoro delle campagne bergamasche. Un contesto, che quasi due secoli dopo, è cambiato e proprio a Gandino vive una seconda dorato, per noi bergamaschi, è come una bandiera identificativa che ci suggerisce di proclamare che «si può parlare in libertà fino alle undici e mezzo, poi però bisogna scodellare la polenta», fantastica essenza del nostro essere pratici. Non solo per le innumerevoli citazioni culturali che l’accompagnano: dai versi di Giacinto Gambirasio, musicati da Pizzi e sottoposti ad un entusiasta Mascagni, alla descrizione che ne fa Alessandro Manzoni («È come una piccola luna in un cerchio di vapori»).
Ma anche perché, lontani da cattedre e microscopi, dotati soltanto di un pizzico di casuale buon senso, c’è qualcosa, in questo allarme reiterato e catastrofico, che non torna. Colazione con la polenta Pensiamo a generazioni di nostri vecchi, soprattutto a quelli di montagna, che dopo un’intensa giornata lavorativa, nei boschi o nelle stalle, negli alpeggi o in bottega, arrivata sera, si sedevano al desco dove presto sarebbe arrivata, direttamente dal camino, una polenta fumante. Ripetiamo: nostri vecchi.
Se fosse così terribilmente esatta la nefasta tesi del Cnr, lassù, vecchi sarebbero diventati in quattro o cinque, considerando che tutti facevano colazione con una fetta di polenta nel latte caldo. Invece, ringraziando il cielo, le nostre pagine sono piene di ultraottuagenari che festeggiano in piena forma il compleanno, avendo cura di soffiare su una miriade di candeline infilzate talvolta in una torta di mais, con più frequenza direttamente sulla polenta stessa. Sorprendente anche l’allarme per gli altri pericoli sventolati, il caffè e la grappa su tutti. Additando, in questo modo, quelli che finiscono la cena con un caffè corretto alla stregua di aspiranti suicidi. Troppa confusione Orbene: come risaputo, il segreto sta nella moderazione e la storia ci insegna come cibarsi di sola polenta non sia precisamente il massimo.
Anche se all’epoca, povere anime, avevano quella e basta. Forse nemmeno un’aringa affumicata per un veloce «pica sö». Noi siamo decisamente più fortunati. Ma procurare panico intorno al nostro piatto simbolo, emblema della gastronomia e non solo, non ci troverà per niente allineati. Troviamo che in questi allarmi ci sia troppa confusione, disordine, scompiglio.
Mentre noi, di guazzabuglio, ne apprezziamo uno solo. La Polenta pasticciata.

Autore: 

Giambattista Gherardi

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